Negazionismo demolito dai quattro scatti di Alex

“Urgente. Inviate il più rapidamente possibile due rullini di pellicola in metallo per macchina fotografica 6×9. Possiamo fare foto”: possiamo fotografare l’orrore, possiamo inviare scatti da Birkenau. Possiamo, perché lo abbiamo fatto: Alex, un ebreo greco membro dei Sonderkommando – le squadre speciali che gasavano i detenuti del campo di sterminio – nascosto proprio dentro le camere a gas appena svuotate, è riuscito a fotografare le fosse di incinerazione e i suoi compagni di lavoro mentre si muovono macabri fra i cadaveri. Il biglietto della resistenza polacca e i quattro scatti di Alex sono giunti fino a noi, infilati in un tubetto di pasta dentifricia. Noi, perciò, lo sappiamo: le camere a gas sono esistite, lo sterminio di massa è stato compiuto. E in verità esiste ormai una documentazione imponente: non solo i quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno, come li ha definiti Didi-Huberman, ma documenti, testimonianze, ritrovamenti. Non solo non c’è spazio alcuno per il dubbio, ma non c’è modo di considerare una semplice opinione quella di chi, nonostante tutto, nega la Shoah.

Contro il negazionismo Donatella Di Cesare ha  scritto il suo ultimo libro, teso e fermo, Se Auschwitz è nulla, per richiamare l’attenzione su un fenomeno che non ha nulla di intellettualmente presentabile, nulla di storicamente valido, nulla di politicamente accettabile, e che tuttavia non cessa di presentarsi in forme che non offendono solo la memoria delle vittime, ma minacciano l’identità stessa dell’Europa democratica: ricostituitasi, come dice Di Cesare, “sulla cenere, su un luogo, fragile e friabile, come le pagine dei libri dati ai roghi”.

Ma come fanno a negare coloro che negano? Jean Francois Lyotard lo ha spiegato esponendo l’ignobile sofisma del negazionista Faurisson, il quale aveva scritto: “Ho cercato, invano, un solo ex deportato capace di provare che aveva realmente visto, con i suoi occhi, una camera a gas”. Ecco come fa, il buon Faurisson: per avere visto e provare che le camere davano la morte, occorre essere morti. Se si è morti, si può testimoniare che quelle che si sono viste sono effettivamente camere a gas, che è Ziklon B il gas che vi viene iniettato, che sono forni crematori quelli in cui le vittime vengono bruciate. La testimonianza del sopravvissuto, in quanto è un sopravvissuto, non è probante e non basta; la sua memoria non vale.

E invece vale. Vale ed è la cosa più preziosa. Vale anzitutto per smascherare quelli come Faurisson, o come David Irving, gente che sotto una lacca di rispettabilità scientifica non si limita a instillare dubbi, ma finisce con l’assecondare di fatto il progetto genocidiario di uno spazio judenrein, depurato dagli ebrei.

Cosa infatti negano coloro che negano, se non che vi siano tracce dei crimini commessi? Essi negano cioè proprio quello che i nazisti volevano cancellare. Nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Nel negare l’accaduto, i negazionisti – accusa Di Cesare – proseguono l’opera: “sorvolano i lager per accertarsi che la terra si sia chiusa definitivamente e il fumo si sia disperso”. Ogni domanda sulla memoria della Shoah deve dunque partire dal fatto che, serbandola, si impedisce che svanisca anche la cenere di coloro che passarono per i camini. Per questo, abbiamo la risposta alla domanda di Adorno se sia possibile poesia dopo Auschwitz. E sappiamo anche se davvero Auschwitz sia stato un orrore così grande da essere indicibile. “La lotta contro i negazionisti sarebbe già persa, se si concedesse l’indicibilità di Auschwitz”, scrive infatti Di Cesare. E dire Auschwitz, spiegare, comprendere, non vuol dire né giustificare né banalizzare o relativizzare, ma ricordare e vigilare.

La vigilanza deve però essere affidata alla memoria collettiva, e non semplicemente al ricordo individuale. Perché la memoria non è solo la registrazione obiettiva dei fatti, ma anche il debito di giustizia nei confronti di coloro che sono morti, e che purtroppo, come diceva Benjamin, neppure da morti possono sentirsi al riparo dall’affronto dell’oblio.

Perché negano, infatti, coloro che negano? Non certo per stabilire come davvero andarono le cose, ma per farle andare ancora oggi in una certa maniera. Il negazionismo non è un incomprensibile rigurgito del passato; è anche un pericolo nel presente. Cosa ha spinto difatti Ahmadinejad a organizzare una conferenza sull’Olocausto, se non l’intenzione di togliere a Israele la religione della memoria, e minarne così la legittimità? Ma noi sappiamo: Auschwitz è esistita, Birkenau è esistita. E lo sterminio di ebrei (di zingari, di omosessuali, handicappati, nemici politici) chiama non Israele ma l’Europa intera, tutti noi, l’umanità stessa, a ricordare e tramandare per poter ancora vivere con dignità. Noi lo sappiamo: ci sono le foto, e ci siamo noi.

L’Unità, 27 gennaio 2011

Una risposta a “Negazionismo demolito dai quattro scatti di Alex

  1. Cosimo Nicolini Coen

    Leggo solo oggi il commento, purtroppo (data l’ingombrante presenza di svariati negazionismi) sempre attuale. Vorrei solo precisare che: 1) Israele non vive sulla religione della memoria (il fatto che la memoria sia un fattore centrale nella vita politica del paese, e che sussista yom ha shoah nel calendario ebraico, non è leggibile come “culto della memoria” ma come inserimento della memoria in una prassi della e per la vita, come è l’ebraismo); 2) la legittimità di Israele non riposa sulla Shoah ma sul diritto del popolo ebraico ad autodeterminarsi nelle forme che meglio crede (quindi anche in quelle politico-statuali). Grazie, Cosimo Nicolini Coen.

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