Macron, l’outsider

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Quando Emmanuel Macron diede alla prestigiosa rivista “Esprit” il suo saggio sui labirinti del politico, nell’imminenza delle elezioni del 2012, forse non pensava ancora che la volta successiva si sarebbe candidato lui, il giovane assistente del filosofo Paul Ricoeur, formatosi sui testi del maestro, di Machiavelli, di Hegel. O forse sì, forse in cuor suo ci pensava già: l’uomo è certamente ambizioso, competente, sicuro. Non ha illustri natali, non vanta precedenti esperienze da sindaco o da deputato, non ha strutture di partito che lo sostengano, eppure, senza aver ancora raggiunto i quarant’anni, ha già costruito un curriculum invidiabile: uscito nel 2004 dalla prestigiosa École nationale d’administration, da cui proviene il fior fiore dell’alta burocrazia dello Stato, ha impiegato solo dieci anni per approdare al governo del Paese, con l’incarico di Ministro dell’economia, su indicazione diretta del Presidente Hollande. Si è poi dimesso nel 2016, per fondare un movimento politico, En marche!, «In cammino», con il quale è arrivato ad essere tra i favoriti dello «spasmo presidenziale» di oggi. Lo ha chiamato così proprio lui, in quel pensoso saggio di cinque anni fa, e mai come questa volta l’espressione è indovinata, con la tensione che si respira nel Paese per l’ultimo attentato terroristico nella capitale e la suspence per un risultato più in bilico che mai. Ad ogni nuova elezione, tutto il sangue che scorre nelle vene della Francia affluisce nella scelta del nuovo inquilino dell’Eliseo e ingolfa il Paese; solo dopo lo «spasmo» del ballottaggio il sangue riprende a circolare normalmente e il cuore della Francia torna a battere con regolarità.

O almeno così accade, di solito. Questa volta però il batticuore è grande, perché non c’è un vero favorito, e tra i possibili vincitori ce ne sono un paio – Mélenchon all’estrema sinistra e Marine Le Pen all’estrema destra – che tengono i cugini d’Oltrealpe (e i mercati) col fiato sospeso. Partito come outsider, Macron si è trovato così ad essere il candidato vezzeggiato dai media e dall’establishment, soprattutto dopo che il partito socialista si è messo fuori gioco con la debolissima candidatura di Hamon, e il candidato della destra gollista, Fillon, si è trovato invischiato in guai giudiziari.

Ma la parabola di Macron è cresciuta, nei mesi scorsi, per altre ragioni. Il giovane politico dagli occhi azzurri, dal largo sorriso e dalla facile oratoria ha guadagnato consensi e suscitato entusiasmo grazie alla mossa di tirarsi fuori dagli schemi politici tradizionali, incentrati sulla sfida tra il candidato moderato e quello socialista. Ha saputo rappresentare una novità credibile, affidabile, positiva, in grado di attirare simpatie su più versanti: tra i socialisti delusi dalla scialba presidenza di François Hollande, fra i centristi persuasi dal suo profilo post-ideologico; fra i moderati in cerca di una figura stimata, priva delle ammaccature del politico di professione che appesantiscono Fillon; tra le giovani generazioni in cerca di nuove motivazioni, e in generale nell’opinione pubblica repubblicana preoccupata di respingere il populismo lepenista.

Questo è peraltro il tratto più significativo della proposta di Macron. Finché infatti ripete il mantra del candidato che si colloca al di là della destra e della sinistra, e che – come diciamo da queste parti – non recita la sua parte nel vecchio teatrino della politica, siamo ancora in una zona incerta, persino ambigua, alla quale attingono tutti i populismi antipolitici che percorrono l’Europa. Quello che però fa la differenza è che, senza rinnegare l’essere di sinistra, Macron torna a ridefinirne il senso con un’offerta politica progressista che scava un abisso con tutti gli altri: «La vera differenza oggi è tra progressisti e conservatori», dice. E non ha timore di cavalcare tutte le bestie nere che scorrazzano sul continente gonfiando il consenso dei partiti anti-sistema. Cosa vi fa più paura: l’euro, la globalizzazione, i migranti, i musulmani? Macron non vi spaventerà con nessuno di questi spauracchi. Anzi. Convintamente europeista, vi farà l’elogio della globalizzazione e magari vi aggiungerà che proprio la dimensione europea costituisce il miglior modo per rispondere alla sfida. Disponibile a collocare le frontiere della Francia non a Ventimiglia, ma a Lampedusa, vi farà l’elogio dell’apertura, contro un mondo chiuso e diviso, anche se, libero da certi retaggi culturali, vi dirà pure che è compito dello Stato dare più sicurezza ai cittadini e assumere più poliziotti. Di ferme convinzioni liberali, non cercherà capri espiatori per le difficoltà del Paese, non se la prenderà con la Cina, con l’India o con l’Ue, ma con la burocratizzazione dell’apparato statale, con la perdita di dinamismo dell’economia. Il che però non gli impedisce di ipotizzare una tassazione più elevata per la rendita da capitale.

Se Macron ce la farà, i lineamenti della sinistra francese ne usciranno, è chiaro, profondamente ridisegnati. In un Paese che a sinistra vanta ancora salde tradizioni troztkiste, non sarebbe una cosa da poco. Così come non lo è, anche per noi, il significato della sua impresa politica: se dovesse riuscire, sarebbe la dimostrazione che il populismo lo si può sconfiggere senza inseguirlo sul suo stesso terreno.

(Il Mattino, 23 aprile 2017)

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