La trita retorica antimeridionale

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Cade oggi l’annuncio della data del referendum per l’autonomia della Regione Lombardia e della Regione Veneto da parte dei due presidenti leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia. Il referendum è solo consultivo, e salta a piè pari quanto stabilito dalla Costituzione vigente, che all’articolo 116 prevede la possibilità che «forme e condizioni particolari di autonomia» siano attribuite alle regioni «con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali». Vi è dunque una via costituzionale all’autonomia regionale, che Maroni e Zaia scelgono però apertamente di ignorare, preferendo indire un referendum consultivo privo di valore giuridico e senza effetti immediati. Evidentemente, l’obiettivo non è quello di intavolare una discussione seria, bensì quello di mettere fieno in cascina della Lega, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Da qualche anno, con la segreteria di Matteo Salvini – subentrato a Umberto Bossi dopo la sconfitta del centrodestra nelle elezioni del 2013 – i toni regionalisti della Lega si sono un poco attenuati: non perché Salvini fosse un campione dell’unità nazionale e avesse un debole per il Mezzogiorno d’Italia, ma semplicemente perché, dopo qualche legislatura trascorsa al governo, la predicazione contro Roma ladrona aveva inevitabilmente perso mordente, e credibilità. Messa dunque la sordina al federalismo e anzi al separatismo delle origini, la retorica populista che fornisce il principale impasto ideologico del leghismo ha dovuto dirigersi altrove, preferendo indirizzarsi contro Bruxelles e verso l’euro, contro l’Islam e contro i migranti. Sono stati questi i nuovi bersagli polemici mirando ai quali la Lega di Salvini ha potuto rifarsi la verginità: l’Unione europea è divenuto il nuovo mostro centralista che minaccia l’autonomia dei popoli, ed il musulmano che sbarca sulle coste della Penisola è divenuto, al posto del meridionale imbroglione, il nuovo nemico che attenta alla sicurezza e alla prosperità delle valli padane. Il vessillo della sovranità nazionale è stato di conseguenza issato contro la globalizzazione, contro le élites tecnocratiche che governano l’Unione, contro i flussi migratori che rubano il lavoro agli italiani.

Gratta gratta però, la preoccupazione è sempre la stessa, e sotto elezioni torna a farsi sentire: come far pagare meno tasse alle regioni più ricche d’Italia, come rifiutare qualunque forma di perequazione a vantaggio delle meno sviluppate regioni del Mezzogiorno, come soddisfare gli egoismi localisti dell’elettorato tradizionale della Lega, come sottrarsi a ogni logica di solidarietà nazionale. Dietro la proposta di Maroni e Zaia c’è insomma il solito refrain: gli altri sono parassiti. Parassiti sono le burocrazie sovranazionali, parassita è lo Stato centrale, parassiti sono i partiti, parassiti le amministrazioni pubbliche, parassita e improduttivo è, ovviamente, il Sud. Che l’iniziativa sia poco più che simbolica non cambia la sostanza: del resto, dall’ampolla piena dell’acqua del Po alle camicie verdi, la storia della Lega è piena di simboli più o meno posticci, con i quali cementare una discutibilissima identità etnica, e inventare un fantomatico popolo del Nord. Né è mancato un referendum dopo il quale il partito di Bossi proclamò formalmente, già dieci anni fa, l’indipendenza della Padania, mai riconosciuta – come puntigliosamente recita Wikipedia – da alcuno Stato sovrano.

Il fatto è che però i simboli non sono mai inerti, politicamente parlando. E anche in questo caso, sotto le fitte nebbie della demagogia, si nasconde lo zampino della politica. Maroni e Zaia vogliono spostare l’attenzione da quello che è stato fatto (o non è stato fatto) a quello che ora promettono di fare. Avrebbero potuto chiedere fin dal giorno del loro insediamento di discutere di autonomia regionale, ai sensi dell’art. 116: ma sarebbe stato un percorso faticoso, lungo, irto di ostacoli, in cui soprattutto il gioco del dare e dell’avere non è detto che avrebbe loro giovato. È molto più comodo, invece, limitarsi ad agitare il panno, e appellarsi al popolo con una consultazione diretta (che una volta di più si rivela uno strumento di manipolazione della democrazia), la quale certifichi simbolicamente quanto siano pronti a mollare la zavorra inutile del resto del Paese. La vecchia idea che il tessuto produttivo del Nord si difende se si sottrae il contribuente padano alle ingiustizie fiscali di Roma e alle politiche assistenzialiste sbilanciate a favore del Sud si innesta però sopra un dato politico reale: la prevalenza nell’opinione pubblica di sentimenti di chiusura e di diffidenza, di paure e incertezze che rendono la risposta populista terribilmente efficace nell’orientare gli umori dell’elettorato. Ed è su questo terreno che la Lega torna a competere, in una deriva che, di qui alle elezioni politiche, rischia di tradursi in una pericolosa escalation.

(Il Mattino, 21 aprile 2017)

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