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La repubblica della “moralità”

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L’onore è perduto, scrive Massimo Giannini su «Repubblica», commentando la decisione a suo dire scandalosa del Parlamento che, nonostante una sentenza di condanna passata in giudicato, nonostante la legge Severino che comporterebbe la decadenza, ma soprattutto: nonostante la «domanda di moralità» che sale dal Paese (e che Giannini mette fra virgolette, forse per una forma di pudore residuo) ha salvato il senatore azzurro Augusto Minzolini, conservandogli lo scranno di Palazzo Madama.

Voglio rendere subito chiaro che cosa significhi un editoriale di questo tenore, affidato a una delle penne più prestigiose di uno dei più influenti giornali del Paese, e certamente il più influente nel campo della sinistra progressista. Significa che se sale prepotente la domanda di moralità, la libertà del parlamentare non conta, e deve togliersi di mezzo. Giannini non lo dice esplicitamente, ma non può significare altro la sua fierissima indignazione e l’enorme scandalo di fronte alla valutazione compiuta dai parlamentari del partito democratico (per Giannini il voto del centrodestra è indecente per definizione: non vale nemmeno la pena di starsi a chiedere perché votino per il loro compagno di partito, o di merende)  che hanno detto no alla decadenza, poco importa che fra essi vi fosse un giornalista serissimo come Massimo Muchetti, un filosofo come Mario Tronti, una coraggiosissima giornalista anticamorra, tuttora sotto scorta, come Rosaria Capacchione. La domanda di moralità non ammette distinguo, e Giannini non si accorge nemmeno di aver così dato clamorosamente ragione a Angelo Panebianco che sul «Corriere della Sera» di qualche giorno fa aveva parlato di resa culturale ai Cinque Stelle. Resa culturale a quel piccolo Robespierre che risponde al nome di Luigi Di Maio, il vicepresidente della Camera dei Deputati, secondo il quale dopo un voto del genere non ci si può lamentare «se i cittadini vengono a manifestare in modo violento». Resa culturale a quell’altro, autorevolissimo esponente del Movimento, Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza della Rai, che rivolgendosi ai banchi del Pd, usa queste violentissime parole: «siete da radere al suolo».

Cosa aveva scritto Panebianco? Che nel discorso pubblico non c’è nessuno che sia in grado di spendere una parola a difesa delle istituzioni della democrazia rappresentativa, nessuno che si batta a difesa della libertà di mandato del parlamentare (l’unico, vero presidio della libertà politica: non ce n’è un altro), «nessuno che si batta con energia per far capire che i parlamentari non sono cittadini come gli altri». E cosa ha scritto ieri Giannini? «Il Senato, consapevolmente ma colpevolmente, decide dunque di disattendere una legge dello Stato, che vale per tutti meno che per uno dei suoi membri». I due testi – quello di Giannini e quello di Panebianco – si oppongono punto per punto, e la sinistra in Italia – la sinistra riflessiva, intellettuale, civile, colta e informata che legge «Repubblica» – ha scelto, ieri, di arrendersi culturalmente ai Cinquestelle: rappresentando come un’eccezione e un odioso privilegio l’esercizio delle prerogative del parlamentare, tra le quali rientra, evidentemente, quella di esprimere in autonomia il proprio sindacato su una legge, su una decisione o su un qualunque provvedimento sia richiesto alla Camera di appartenenza. Si è arresa, dando del venduto ai diciannove parlamentari del Pd che hanno difeso Minzolini. Ma non avendo la sfrontatezza dei grillini, e volendo mantenere l’eleganza che contraddistingue le opinioni per bene, si è arresa col piccolo artificio retorico di fingere di non voler nemmeno pensare che il Pd e i suoi senatori si sono venduti.

Si è arresa, insomma,facendosi interprete di quella domanda di moralità incattivita dalla rabbia, in nome della quale oggi Giannini non rispetta il voto del Senato, tanto poco quanto lo rispetta il Movimento Cinquestelle, che anzi ne alimenta il disprezzo. In nome della quale Giannini confessa di parlare in un linguaggio che non gli appartiene: scrive infatti che nel voto si è manifestata «la Casta che difende se stessa», e poi aggiunge subito che però queste parole non sono le sue, questa maniera di esprimersi non è la sua, ma quella di un tempo «di ferro e di fango». Già: il tempo. Ma questa è proprio l’egemonia di cui parlava Panebianco: quando parli parole non tue, ne sei consapevole e tuttavia non puoi farne a meno, le metti tra virgolette cercando di tenerle a qualche distanza, prendendole con le pinze, ma intanto non ne hai altre, hai consumato ogni altro lessico e devi prendere le parole dal vocabolario che gli altri, quelli che dovrebbero essere i tuoi avversari, hanno ormai imposto nel discorso pubblico.

Del resto, quali  altri terreni la sinistra politica in Italia ha saputo coltivare durante la seconda Repubblica, all’infuori di quello che gli ha offerto l’opposizione morale al berlusconismo? La domanda di moralità che ieri Giannini ha tirato di nuovo fuori dal cassetto era la madre di tutte le domande, che, nel numero di dieci, «Repubblica» formulava all’indirizzo del Cavaliere. Ed è tuttora la sola domanda che solleva a sinistra passioni e furori, molto più delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali. Anzi, la sinistra sta perdendo pure su quest’ultimo terreno, lasciando che ad occuparlo sia un altro regime di discorso, quello che si fa contro gli stranieri che rubano il lavoro o minacciano la nostra identità.

Anche queste parole si fanno egemoni e sottraggono spazio alla sinistra. Che forse, proprio perciò, va a rimorchio di quelli che inoculano il virus dell’antiparlamentarismo, avendo perduto l’onore di difendere il Parlamento anche quando sbaglia.

Ma un Parlamento che sbaglia è meglio, molto meglio di nessun Parlamento. Avrei votato per la decadenza – e mi spiace di doverlo mettere in premessa per non essere frainteso, come una specie di excusatio non petita – ma se per tenerlo in piedi fosse necessario riempirlo di mille malfattori, ebbene: io lo farei.

(Il Mattino, 18 marzo 2017)

 

 

Se la politica resta appesa ai tribunali

downloadLa legge Severino ha superato il vaglio della Corte costituzionale. Non è ancora finita, perché pendono altri ricorsi, ma la questione sollevata dal Tar Campania – la prima ad essere giudicata dalla Corte – è stata rigettata. Come si ricorderà, il ricorso del sindaco di Napoli De Magistris si fondava sull’applicazione retroattiva della norma, ma la Corte, ha respinto il ricorso, negando il carattere penale della misura di sospensione applicata al sindaco. Se non si tratta di una legge penale e di una misura afflittiva, non è incostituzionale l’irretroattività. Per De Magistris non cambia però quasi nulla: lo aspetta infatti un’assoluzione o una prescrizione. Nell’uno e nell’altro caso, sarà superata la condanna in primo grado già inflittagli, e così non scatterà alcuna sospensione. Ma la decisione della Corte mette in qualche allarme il governatore della Regione, Vincenzo De Luca.

Anche De Luca ha infatti una condanna in primo grado, per abuso d’ufficio, e anche lui è stato sospeso, salvo poi la sospensione essere stata a sua volta sospesa dal Tribunale di Napoli, con ricorso alla Suprema Corte. Il ricorso di De Luca ha tre frecce al suo arco: con la sentenza di ieri, la prima freccia non è andata a bersaglio. Restano altre due. Resta anzitutto il motivo della diversità di trattamento che la legge Severino prevede per i parlamentari (per la cui decadenza dalle Camere ci vuole una condanna definitiva) e per gli amministratori locali (colpiti da sospensione anche in caso di sentenza di colpevolezza di primo grado: che è il caso appunto di De Luca). Resta poi la questione dell’eccesso di delega. il governo – è la tesi degli avvocati di De Luca – aggiunse nella legge, tra i reati che portano alla sospensione, anche l’abuso d’ufficio (che è di nuovo il caso di De Luca), andando oltre quanto previsto nella delega del Parlamento.

Difficile fare previsione sul futuro pronunciamento della Corte, e proprio questa difficoltà è il principale problema che attende la Campania nelle prossime settimane, o mesi. È chiaro infatti che la vicenda regionale cambierebbe profondamente, qualora De Luca fosse di nuovo sospeso, e gli effetti politici andrebbero probabilmente anche più in là di quelli meramente amministrativi. Ma fin d’ora questa incertezza si trasmette, lo si voglia o no, sul governo della Regione. Nel corso della campagna elettorale, De Luca fu molto netto nel presentare le sue ragioni e, insieme, i torti della legge e del legislatore nazionale. Non poteva fare diversamente: ne andava del voto, e nessuna ombra doveva allungarsi sulla pienezza del suo futuro governo. Oggi però non si può essere altrettanto netti: la sentenza spunta almeno una delle frecce all’arco del governatore.

E ributta la palla nel campo della politica, dove i giocatori non riescono a giocare la partita, sciogliendo davvero i nodi che la riguardano. La legge Severino è infatti stata introdotta per irrobustire l’argine contro la cattiva politica: un argine che dovrebbe essere costruito anzitutto da quegli stessi organismi politici, i partiti, che sono responsabili della selezione delle candidature e della qualità della classe dirigente.

E invece si vuole che i casi della politica siano regolati azionando di volta in volta i giudici di questo o quel tribunale, di questa o quella Corte. Se fra qualche mese la Campania dovesse precipitare in una sorta di limbo amministrativo, con la sospensione del suo governatore, questa volta non sarebbe però – è bene dirlo con chiarezza – per un’invasione di campo della magistratura, o per l’ennesimo conflitto fra le toghe e i politici (che pure in questi anni non ci siamo fatti mancare), ma per avere la politica cercato di assicurare il decoro delle istituzioni solo con il puntello della legge, dove dovrebbe invece bastare la capacità di selezionare con serietà e rigore i propri rappresentanti.

De Luca ha sempre protestato che, nel suo caso, rischia di finire sotto la tagliola della legge per un «reato linguistico»: tale sarebbe l’abuso che gli viene contestato. Ora, importa poco se sia davvero così (importerà, e come, in tribunale); quel che però di sicuro conta, è che la politica non si può neppure permettere di soppesare la circostanza. E non può non perché non possa entrare nel merito di una vicenda giudiziaria, ma perché non ha la credibilità per farlo. Ce ne sono ancora troppi, di episodi di corruzione e di malaffare, perché si possa derubricare a inezia questa o quella vicenda. Così si rimane appesi a una legge: a volte a un avviso di garanzia, altre volte a una condanna non definitiva. A volte a gravi episodi corruttivi, altre volte a vicende bagatellari, in un caso e nell’altro senza avere la forza di rivendicare alcunché, ma sempre solo quella di demandare ad altri il compito di togliere le castagne del fuoco. Col risultato che le stesse decisioni della magistratura diventano una parte del gioco politico, del calcolo delle azioni e delle reazioni, tra astratti furori moralistici e sordide lotte di potere, in una spirale che si sarebbe dovuta arrestare all’alba della seconda Repubblica, e che invece c’è il rischio di portarsi dietro pure nella terza.

(Il Mattino, 21 ottobre 2015)

I cento complotti di De Magistris

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Dopo i Protocolli dei Savi Antichi di Sion, le scie chimiche e il falso allunaggio, nella classifica dei complotti più famosi al mondo, o almeno sotto il Vesuvio, entra di prepotenza quello ordito ai danni del sindaco di Napoli. Se Elvis Presley inscenò la sua morte, e i rettiliani governano occultamente il mondo, non sarà che tutto l’ambaradan della legge Severino sia stato architettato al solo scopo di fregare Luigi De Magistris? Questo almeno lascia intendere il sindaco, nell’intervista rilasciata ieri a questo giornale. Chi ha scritto infatti la legge Severino? Il ministro Severino, e chi sennò? E da chi era difeso Romano Prodi, parte civile nel processo che ha portato alla condanna di De Magistris? Dallo studio legale Severino. Due più due fa quattro, e la prova è data. In realtà, con questi argomenti, due più due può fare qualsiasi risultato. La legge Severino è firmata effettivamente dal ministro della Giustizia del governo Monti, però è stata voluta anzitutto dal ministro dell’Interno Cancellieri, e redatta insieme al ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi: tutti complottardi? Evidentemente sì.  Quanto al non piccolo particolare che la condanna in primo grado di Giggino è intervenuta dopo la legge, non prima, che ci vuole a sistemare le cose? Basta immaginare trame nascoste e segrete cospirazioni, e si può facilmente supporre che il giudizio della magistratura sia stato abilmente orchestrato a danno del malcapitato Sindaco.

Ma non finisce qua. Perché De Magistris ne ha anche per Raffaele Cantone. In passato, ‘o  Sinnaco ha lanciato sassi contro il Quirinale, quando vi sedeva Giorgio Napolitano: volete che si fermi davanti all’Autorità Nazionale Anticorruzione? La quale Autorità si era pronunciata contro la nomina di Raffaele Del Giudice alla guida di Sapna (la società provinciale che gestisce il ciclo dei rifiuti), e il collegio sindacale di Sapna aveva sostenuto il parere dell’Anac. Ebbene, chi presiedeva il collegio sindacale di Sapna? Ma Michele Cantone, fratello di Michele. Tutto torna, dunque, e la cospirazione è provata. La verità ha poi trionfato ugualmente perché il complotto è stato smascherato dal Tar, ma De Magistris non può star zitto lo stesso, perché De Magistris «non molla mai». Pure qui, in realtà, c’è un particolare che non torna: Michele Cantone si astenne dalla redazione del parere citato da De Magistris, per evitare illazioni. Ma di nuovo: se stai ipotizzando che il mondo ce l’ha con te, questi sono dettagli che lasci a qualche Azzeccagarbugli, tu sei il sindaco che scassa tutto, puoi ben evitare di curartene.

E così De Magistris continua a dare di sé il ritratto che a suo dire piace tanto ai napoletani: quello del Sindaco che a mani nude lotta contro i poteri forti, i poteri occulti, le trame di Palazzo (anche se nel Palazzo lui siede ormai da un bel po’). E così, mentre dice «basta con la storia del soggetto isolato», dice pure che però lui è «l’unico riferimento istituzionale in circolazione»; mentre parla di «autorevolezza nazionale» restituita alla città, se la prende con l’Autorità nazionale anticorruzione, e, en passant, con qualche ex ministro ed ex Presidente del Consiglio. C’è contraddizione? Tanto peggio per la contraddizione!

Tutto ciò ha però una precisa coerenza: il sindaco della gente, senza partiti alle spalle, non può sedersi a un tavolo come un politico qualsiasi e fare l’accordo con il Pd. Non ci sono le condizioni, ripete. «La mia forza non è quella di essere il sindaco di centrosinistra», insiste. E mentre lo dice lascia intendere che in realtà una condizione c’è, ed è quella che ha messo lui: se proprio il partito democratico non sa che pesci pigliare, può mettersi in coda e sostenerlo. «Ben venga»! Basta, ovviamente, che il Pd venga così: con il cappello in mano. O magari in ordine sparso.

Su questo, peraltro, De Magistris ha ragioni da vendere: veramente il Pd non sa, al momento, a che santo votarsi. È vero, manca ancora un anno alle elezioni comunali, ma già si capisce che per ogni nome che vorrà tirar fuori, si troverà certo qualcuno disposto a impallinarlo. Dopo il disastro delle primarie del 2011, e il fallimento del Prefetto Morcone, andare appresso a De Magistris significherebbe però certificare questo stato, ammettere che, nel frattempo, non è maturata alcuna proposta politica seria. Può essere che non ci sia altro da fare. Del resto, alla Regione c’è ora De Luca, che nella sua Salerno il simbolo del Pd non ha voluto vederlo nemmeno col cannocchiale: a che serve proporlo allora a Napoli?

Già: a che serve? A che servono i partiti? Qualcuno ancora, ostinatamente, se lo chiede. Ma, ovviamente, tocca ai partiti dimostrare che a qualcosa servono: non certo a De Magistris. E forse nemmeno a De Luca.

(Il Mattino, 27 giugno 2015)

L’occasione per il riscatto della politica

ImmagineIn attesa che la Corte d’Appello di Milano ridetermini le pene accessorie, e dunque la durata dell’interdizione dai pubblici uffici, così come richiesto dalla Cassazione, tutto sembra ruotare intorno all’interpretazione della legge Severino: decadenza di Berlusconi dal Senato e futura incandidabilità.  Ermeneutici di tutto il mondo, unitevi! Eppure, non c’è bisogno di essere stati allevati a chissà quale scuola del sospetto per dubitare fortemente che sia davvero una sottilissima questione di ermeneutica giuridica, di interpretazione della legge, a tenere in forse il futuro del governo, la cosiddetta «agibilità politica» del Cavaliere e l’eventualità che il Paese torni nuovamente alle urne, nonostante le parole che si leggono nella nota diramata dal Quirinale qualche giorno fa: le elezioni anticipate sono un’ipotesi «arbitraria e impraticabile».

No, non è una materia per fini giuristi, e non sono le corti di giustizia a dover cavare la politica fuori dall’impaccio. Su questo punto, è comprensibile che persino Berlusconi sia poco convinto dell’idea, che circola in queste ore fra i suoi stessi supporter, di elevare ricorso alla Corte Costituzionale per scongiurare le conseguenze di una legge che, nel suo dettato, parla con sufficiente chiarezza. Certo, non c’è testo di legge intorno a cui non sia possibile imbastire una discussione per tesi contrapposte circa il suo senso, la sua portata, le condizioni della sua applicazione, il suo ambito di validità e chissà cos’altro. Ma quanti chiedono oggi un passaggio attraverso il giudizio della Corte non fanno loro stessi mistero che si tratterebbe soprattutto di guadagnare tempo. Il tempo non è un fattore secondario,  tutt’altro: dal tempo che potrà essere accordato a Berlusconi, prima che scattino decadenza e incandidabilità, possono anzi dipendere non solo le sorti del governo ma più in generale la tenuta del quadro politico attuale. La possibilità di fare una nuova legge elettorale, ad esempio, o la maniera stessa in cui si modelleranno le future leadership, sia a destra che a sinistra. Ma di nuovo, il tempo di cui si tratterebbe è una dimensione essenziale del gioco politico; in punto di giustizia, ogni dilazione, ritardo o differimento vale piuttosto come una sconfitta secca.

Dunque, siamo da capo. La partita in corso è eminentemente politica. I valori in gioco, anche: chi giustamente si preoccupa della stabilità del Paese, che sarebbe messa a repentaglio qualora tutto conseguirebbe come la legge Severino prevede, mette sul piatto un bene essenzialmente politico. Chi, d’altra parte, si chiede se sia possibile che il Pdl sia decapitato per via giudiziaria del suo incontrastato leader, che per circa un decennio ha governato l’Italia e che continua a riscuotere di un vastissimo consenso personale, evidentemente non pone una questione buona per i tribunali e le aula di giustizia, ma, ancora una volta, solleva un problema politico.

Accertato però che la logica politica non coincide con la logica giuridica, perché provare a deformare l’una sotto la spinta dell’altra? Perché mortificare il diritto, piegandolo alle ragioni della politica, invece di esaltare la politica, promuovendone in chiaro le responsabilità? Da che la politica moderna è sorta, ci si è trovato dinanzi a ogni sorta di attrito fra la politica e il diritto. È inutile sciorinare esempi, cercare precedenti, invocare la ragion di Stato o gli «arcana imperii». D’altra parte, è abbastanza ingenuo ritenere che, in un ordinamento liberal-democratico, le frizioni fra i due campi siano scomparse, come se ci fosse un semplice algoritmo per affrontare ogni caso, l’applicazione non controversa di una procedura per superare ogni evenienza. Ivi compreso il meteorite Berlusconi, capitato sul pianeta di Italia non si ricorda più in quale anno di grazia. Non è così. Forse, se l’ethos democratico si distingue dai regimi non democratici è per la possibilità di portare alla luce del giorno l’assunzione delle responsabilità politiche, e di premiarle o punirle in un procedimento pubblico, universale e libero, con la vittoria degli uni o degli altri nelle elezioni. Se dunque la posta in gioco sono le conseguenze o anche solo il significato politico, perfino simbolico, della decadenza e incandidabilità di Silvio Berlusconi, si chieda alle sedi politiche, non alle corti di diritto, di prenderle in esame.

Dalle voci che circolano in queste ore, sembra che Berlusconi abbia in animo di far cadere il governo se non si trova una soluzione ad personam. In questo modo, lega il corso politico al suo destino personale. Una specie di muoia Sansone con tutti i filistei. E se invece la cosa dovesse andare a rovescio, e, perché sopravviva qualcuno, dovesse essere il suo destino personale a legarsi alla prosecuzione dell’attuale corso politico? Se infatti il nodo non è affatto giuridico, non chiama in causa anzitutto i giuristi né, ragionevolmente, la Consulta, ma la classe politica e la seconda Repubblica – forse: la sua possibilità di finire, visto che ne abbiamo avuto tutti abbastanza – è la politica che deve compiere atti che valgano non come la disapplicazione delle sentenze, ma come la chiusura di un ciclo e l’apertura di una nuova stagione. Berlusconi può chiedere al governo Letta, magari in una prossima occasione parlamentare, di essere quello che finora non è stato né doveva essere – un governo di pacificazione – solo però se gli dà tempo e scommette sulla sua durata, non certo se ne interrompe bruscamente il cammino.

(Il Mattino, 22 agosto 2013)