Assoluzione di Fitto, il dovere di riflettere

Acquisizione a schermo intero 01102015 192458.bmpForse qualche riflessione occorre, dopo che la Corte d’Appello ha mandato assolto «perché il fatto non sussiste» Raffaele Fitto, ex governatore della Regione Puglia, poi europarlamentare e, da ultimo, leader della formazione dei Conservatori e Riformisti, staccatisi da Forza Italia.  L’assoluzione arriva a distanza di ben nove anni dall’ordinanza di custodia cautelare che avrebbe portato Fitto in carcere, se la Camera non avesse respinto la richiesta della Procura. Fitto era stato accusato di corruzione, ed era stato condannato in primo grado, nel 2013, a quattro anni di reclusione e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici per una presunta tangente di 500.000 euro versata dall’imprenditore della sanità Gianpaolo Angelucci. Sotto prescrizione cadono invece gli altri reati contestati, l’associazione a delinquere, l’abuso d’ufficio e l’illecito finanziamento ai partiti. Di fronte a una sentenza simile, che ribalta l’esito del processo di primo grado, il procuratore della Repubblica di Bari, Giuseppe Volpe, ha diramato una nota per dire che la decisione presa dalla Corte di Appello ha «confermato la fondatezza dell’ipotesi accusatoria». Confermato. La fondatezza.

Ora, è evidente che, in generale, non basta un’assoluzione per giudicare manifestamente infondata l’ipotesi sulla base della quale la pubblica accusa ha proceduto, ma ancor meno si può ritenere il contrario, che cioè basti la prescrizione a darla invece per confermata. Un bel tacer ogni dotto parlare vince, avrebbe detto il poeta Metastasio, ma forse la circostanza induce molto poco a fare della poesia.

L’accusa investiva infatti Raffaele Fitto e il governo della Puglia (lasciato un anno prima, nel 2005) per una vicenda non piccola, che toccava uno dei capitoli centrali delle politiche regionali, la sanità. Non diversamente, del resto, è andata in Campania ad Antonio Bassolino. Anche nel suo caso al centro delle inchieste c’era un pezzo fondamentale del governo regionale, la gestione del ciclo dei rifiuti. E anche nel suo caso, a sette anni dall’emergenza, i fatti hanno preso a non sussistere più. Ora che di Bassolino si torna a parlare come di un possibile candidato alla poltrona di primo cittadino, viene da chiedersi quante scorie di quelle vicenda rimarranno comunque nel dibattito pubblico in conseguenza non di un apprezzamento politico, ma di un’iniziativa giudiziaria. Tutti sanno d’altronde che, purtroppo, l’assoluzione che arriva dopo l’accusa non ripristina affatto, agli occhi dei più,  lo status quo ante. Le parole del procuratore Volpe sono una conferma lampante di ciò.

E dunque qualche riflessione occorre. Sanità e rifiuti sono le voci più importanti su cui si dà prova di buon governo o di cattivo governo di una regione. Ma non è la stessa cosa se i cittadini arrivano a pronunciare il loro giudizio, nell’urna, mentre pendono inchieste, accuse e condanne, che poi si risolvono in un nulla di fatto, oppure quando nulla di questa nera nuvolaglia ingombra l’orizzonte. È chiaro, infatti, che il corso politico degli eventi risente dei procedimenti giudiziari, e quando, a distanza di anni – di molti, troppi anni –  si deve prendere atto che l’ipotesi accusatoria può forse continuare ad apparire fondata agli occhi di qualche magistrato, ma è in realtà franata in secondo grado, è inevitabile domandarsi se non vi sia da rifletterci su. Perché in gioco non è solo il destino individuale delle persone, che pure non è certo un particolare trascurabile; in gioco sono aspetti cardinali di una democrazia liberale: l’equilibrio fra i poteri e il rispetto delle forme della rappresentanza democratica.

La ragione per cui questi interrogativi vengono sollevati in queste occasioni, quando il problema dei tempi del processo riguarda il sistema della giustizia nel suo complesso sta tutta qui: la casta non c’entra per nulla. E non basta neppure osservare che fa parte della normale dinamica processuale che una sentenza d’appello capovolga il giudizio di primo grado. Se così non fosse, si potrebbe infatti concludere perfino che è inutile prevedere un secondo grado di merito. Ma non basta, perché il nodo dei tempi di svolgimento del processo resta, e resta pure una cultura, che si fa fatica a contrastare, per cui è sufficiente un’accusa per anticipare di fatto una condanna, salvo poi ricredersi quando le risultanze processuali danno esiti diversi, a così tanta distanza dai fatti che nessuno se ne ricorda più. O magari non ricredersi nemmeno, ma ribadire che l’accusa stava in piedi comunque, assoluzione o non assoluzione.

Che dire? Qualche riflessione occorre davvero.

(Il Mattino, 1 ottobre 2015)

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