Perché Giordano Bruno è già riabilitato

ImmagineEretico, impenitente, ostinato. Nella sentenza con la quale Giordano Bruno fu condannato al rogo, l’ex frate domenicano, condotto innanzi al Sant’Uffizio dopo una vita avventurosa e inquieta, dopo essere stato trattenuto in carcere per circa otto anni, dopo essere forse stato anche torturato, appare così: pertinacemente attaccato ai suoi errori, indisponibile all’abiura, fiero e orgoglioso delle dottrine professate e disposto a difenderle contro ogni teologo. Finito che si ebbe di leggere la sentenza, Bruno disse, o avrebbe detto, alla congregazione dei cardinali inquisitori, con tono di sfida: «Forse tremate più voi nel pronunciare la sentenza che io nell’ascoltarla». Non sono parole di uno spirito docile al magistero della Chiesa, come ognuno intende.

Dopo più di quattro secoli, però, Roma non trema più dinanzi al pensiero e all’opera del Nolano. E per questo è possibile persino che la sua figura venga proposta per una riabilitazione ufficiale. Questa è almeno l’intenzione che ha manifestato il cardinale brasiliano Frei Betto, e che Papa Francesco avrebbe intenzione, a detta del cardinale, di tenere in considerazione. Insieme a Bruno, un altro domenicano sarebbe stato proposto per la riabilitazione: il grande pensatore renano Meister Eckhart, vissuto fra XIII e XIV secolo, il cui radicale misticismo speculativo mal si conciliava con la dottrina trinitaria della Chiesa cattolica (mentre fecondò copiosamente, secoli dopo, l’idealismo tedesco di Schelling e Hegel). Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, oltre a rallegrarsi per il generoso proposito, vale la pena chiedersi che cosa precisamente significhi un processo di riabilitazione, e mari anche chi o cosa debba essere riabilitato, se il filosofo o i suoi accusatori. Dopo tutto, le piazze e le strade, le scuole e i monumenti Giordano Bruno li ha già avuti dedicati, senza aspettare il placet ecclesiastico. Né gli occorre per trovare un posto nella storia del pensiero.

Ma si predispongano pure le carte, si rifaccia il processo e si riabiliti pure: significherà questa insperata revisione che innanzi al Sant’Uffizio Giordano Bruno  non fu affatto eretico, impenitente oppure ostinato? Sarebbe complicato assai. Perché impenitente e ostinato Bruno lo fu senz’altro, visto che i lunghi anni del processo non valsero ad ottenere quell’abiura che gli avrebbe salvato la vita. Il processo ebbe fasi diverse e parve, nel corso degli anni, che avrebbe potuto avere un esito diverso. Fino all’ultimo si rimase appesi ad otto proposizioni che Bruno pareva potesse infine ritrattare. Così non fu, e quale che sia stata la causa che determinò l’ultimo irrigidimento del Nolano, per qualunque ragione si convinse che le proposizioni sottoposte al riesame non meritavano una ritrattazione, sta il fatto che per questa ostinazione finì sul rogo: riabilitarlo significa allora riconoscere la grandezza morale del gesto con cui il filosofo tenne ferma la sua opposizione alla dottrina cristiana?

Gli storici della filosofia, d’altra parte, discutono e discuteranno ancora a lungo del suo pensiero: delle influenze rinascimentali, neoplatoniche, neoaristoteliche, della natura e della portata del suo immanentismo, dei suoi propositi di rinnovamento della morale, della politica, della stessa teologia, ma ben difficilmente potranno raccogliere tutti questi fermenti in una qualche summula cristiana. Nella storia, come nel pensiero, non è vero affatto che «anything goes», che tutto va bene, come diceva Paul Feyerabend. Un così largo e generoso anarchismo metodologico non si addice d’altra parte neppure alla Chiesa, il cui profilo dogmatico possono certo aprirsi alle più diverse correnti o ai più diversi stili di pensiero, ma senza che per questo possano scomparire tutti i punti di attrito, tutte le distanze teoriche e gli inconciliabili punti di dottrina. Per dirla all’ingrosso: forse ha senso che rimanga alquanto contraddittorio essere cristiani, per cultura e per fede, e contemporaneamente tenere nel proprio pantheon personale Giordano Bruno o, che so, Cesare Vanini, oppure Giuliano l’Apostata.

Certo, Papa Francesco continua ad apparire abbastanza distante, perlomeno sul piano pastorale, dai suoi predecessori. Per il modo in cui interpreta il suo Pontificato, viene effettivamente difficile aspettarsi da questo Papa un’enciclica sul modello della «Fides et Ratio» di Giovanni Paolo II, con tanto di affermazione del tomismo come dottrina filosofica ufficiale della Chiesa Cattolica. Ratzinger, dal canto suo, non ha certo fatto mancare il senso di un impegno robusto sul piano teologico. Ma tra la riproposizione dei «preambula fidei» della tradizione tomista e il «tana, liberi tutti» con cui pare si voglia tributare oggigiorno un imprevisto omaggio all’eroico Bruno ce ne corre. In un’epoca in cui le idee copernicane facevano molta fatica ad affermarsi, al punto che lo stesso astronomo polacco le aveva proposte a titolo di ipotesi matematica – senza dire che ancora trentatré anni dopo Galileo Galilei sarà chiamato a pronuncerà l’abiura – Bruno scommette invece senza paura sull’infinità dell’universo. E non si tratta neanche di eliocentrismo, ma proprio della rinuncia all’idea di un universo chiuso ordinato intorno a un centro. La prima ferita narcisistica al primato della specie umana, come dirà poi Freud, fu inferta dal ripudio del sistema tolemaico: cosa vuol dire allora riabilitare, sanare quella ferita? Ammettere che l’uomo non è al centro di alcunché?

E che dire della vigorosa polemica bruniana contro la morale cristiana? La riabilitazione del pensatore deve fermarsi alle soglie del suo pensiero. Ma allora cosa significa riabilitare un filosofo se non si possono riabilitare le sue idee?

Naturalmente, nessuno pensa che la Chiesa debba fare il contrario: ribadire la condanna, mantenere all’Indice i libri, mettere sugli altari gli Inquisitori romani. Ma aprirsi al mondo moderno, riconoscere la libertà di coscienza, tributare un omaggio all’autonomia del pensiero e della ricerca, difendere l’indipendenza dello spirito individuale, la Chiesa per fortuna l’ha già fatto. E da tempo, ormai. Quel che non ha fatto, al riguardo, è solo quello che proprio non si può fare: «factum infectum fieri nequit». Quel che è fatto è fatto, insomma, e non c’è bisogno di mescolare l’acque e fare per esempio di Bruno il campione di un generico e indistinto umanesimo, come vuol fare il cardinale Frei Betto, oppure riconoscere a ritroso i tesori di spiritualità nascosti nella mistica medievale. Quei tesori ci sono, lo sappiamo, filosofia e teologia non smettono di pensarci su, ma non occorre per continuare a farlo alcuna patente di ufficialità né un finto unanimismo. Anche perché se domandassimo se un pensatore bruniano potrebbe spuntar fuori da qualche università pontificia la risposta dovrebbe essere che no, non può affatto accadere. E, francamente, è giusto così.

(Il Mattino, 11 aprile 2014)

Una risposta a “Perché Giordano Bruno è già riabilitato

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