Archivi del giorno: marzo 6, 2017

Le indagini al tempo della gogna

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Procedimento al momento contro ignoti, e revoca dell’indagine al Noe dei Carabinieri. Si vedrà in seguito quale sviluppo avrà la clamorosa iniziativa della Procura di Roma, ma si vede già adesso che qualcosa di grave è accaduto, visto che le indagini sono passate dal Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, cui le aveva delegato la Procura di Napoli, al Nucleo investigativo di Roma dell’Arma. Ci sono motivi per cui a Roma non vogliono più saperne del Noe? Da Napoli il procuratore reggente, Nunzio Fragliasso, fa sapere naturalmente che c’è perfetta sintonia fra i due uffici inquirenti. Ma qualcosa di distonico deve essere per forza accaduto lungo l’Appia antica, nel passaggio di competenza da Napoli a Roma, visto che quello che Roma ha coperto con omissis, nei provvedimenti adottati in questi giorni, è finito ugualmente sui giornali. La girandola dei dubbi e delle illazioni cresce: che c’azzecca, avrebbe detto il Di Pietro dei bei tempi, il nucleo operativo che si occupa di tutela dell’ambiente con la materia Consip, gli appalti e tutto il resto? C’è da vedere nei motivi del loro impiego un particolare affiatamento con i magistrati del pubblico ministero, com’è normale nel funzionamento di qualunque ufficio, oppure siamo dinanzi a uno scenario assai inquietante, in cui ciascuno si fida solo dei suoi – e Roma non si fida più di quelli di Napoli?

Mentre pongo questo interrogativo, mi accorgo che l’essere anche solo arrivati dinanzi a un punto di domanda del genere indica già che una china pericolosissima è spalancata innanzi al Paese, e grande è il rischio di finirci dentro inseguendo la ridda di indiscrezioni ed ipotesi che si affollano in queste ore. La Procura di Napoli fa bene a provare a gettare acqua sul fuoco, così come quella di Roma fa bene a far filtrare soltanto motivi di malumore e irritazione e nulla più.

Ma se un normale cittadino, per qualunque motivo raggiunto da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, fosse messo dinanzi all’interrogativo che ho prima formulato, credo che sarebbe semplicemente atterrito all’ipotesi di una conduzione delle indagini non dico privatistica, ma fondata su rapporti fiduciari di tipo personale. Un timore che nessuno dovrebbe mai nutrire, un pensiero che in uno stato di diritto non dovrebbe mai potersi affacciare alla mente di qualcuno. In questo caso, invece, non solo è inevitabile che si affacci, ma siccome non parliamo soltanto di semplici cittadini, ma di personaggi pubblici, non c’è riga che esca sui giornali che non abbia dirompenti effetti politici: non c’è allora da fermarsi un attimo e da riflettere allarmati? È possibile che l’Italia debba infilarsi per l’ennesima volta in un tunnel fatto di rivelazioni di segreti investigativi, di uso indebito delle intercettazioni, di fango nel ventilatore che schizza da ogni parte, a prescindere da qualunque risultanza processuali o rilevanza penale?

È possibile che dobbiamo orientarci su scenari tanto opachi, tanto limacciosi? E infatti: c’è già quello che tira fuori la profezia di D’Alema di due anni fa, che Renzi sarebbe caduto per mano giudiziaria (profezia invero facile a farsi, in Italia, vista la frequenza con cui queste cadute si sono prodotte nel nostro Paese), quell’altro che ricomincia a parlare di complotti e poteri forti – un must della politica italiana –, quell’altro ancora che sposta invece l’attenzione sullo scontro in atto tra i carabinieri, con il coinvolgimento del Comandante Generale, Tullio Del Sette, appena prorogato alla guida dell’Arma. Del Sette è pure quello che aveva esautorato il capitano Ultimo dalla guida del Noe. Spostato ai servizi, dove ritroviamo adesso il capitano? Proprio nell’indagine del Noe che, tra gli altri, ha tirato in ballo pure Del Sette, per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio. C’è di che rimanere sconcertati.

Fermarsi a riflettere, dicevo. Evitare, per quanto è ancora possibile, di condurre la lotta politica sulla base di questi materiali. Evitare la barbarie giustizialista che spicca una sentenza di colpevolezza a carico di chiunque veda il suo nome trascritto in qualunque atto d’indagine. Evitare insomma di mettere inavvertitamente nelle tasche sempre più magre della democrazia, insieme al pezzo di carta ritrovato dai carabinieri con le sigle e le cifre, il sasso che la manda definitivamente a fondo.

I miracoli non sono fatti per convertire, diceva Pascal, ma per condannare. Così è anche per tutta la materia che dalle Procure finisce in pasto all’opinione pubblica: è fatta non per informare, ma per condannare. E una cosa è certa, ahimè: di miracoloso non vi è proprio nulla nella fuga di notizie che infiamma il dibattito pubblico.

(Il Mattino, 6 marzo 2017)

Qualche domanda alla sinistra

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Quello che si legge in questi giorni a proposito di Tiziano Renzi e Luca Lotti proviene pari pari da note informative stese dai carabinieri: c’è qualcuno che veda un problema, in questo? C’è qualcuno, in questo Paese, che ne tragga un motivo di preoccupazione, qualcuno che osi domandarsi cosa vi sia di liberale, in tutto questo, a quale civiltà giuridica appartenga tutto questo?

Domande da Cassandra, dubbi che nessuno ascolta. Tutta l’intellettualità democratica, di sinistra e perbene prova di nuovo il piacere sottile di mettersi dalla parte della ragione, della morale e della giustizia per dare addosso al potente finalmente sbalzato di sella. Il meccanismo del capro espiatorio scatta ancora una volta. Siccome a prendere la parola sono garantisti a tutto tondo, non mancano mai di aggiungere con il giusto sussiego che i giudizi che rendono prescindono dagli sviluppi giudiziari della vicenda e prendono in considerazione solo l’opportunità politica. E dopo questa premessa chiedono, con finta pensosità: è opportuno questo gran daffare di papà Renzi? È opportuno circondarsi di amici d’infanzia, piazzarne uno qua e uno là? Sono opportune certe frequentazioni, certi incontri, certi finanziamenti? Tutto ciò è inopportuno, si dice. Ma non ci si chiede mai se non sia assai più inopportuno – anzi: profondamente guasto e nocivo per il Paese – alimentare queste domande con le carte passate dai carabinieri. Perché di questo si tratta: non di riscontro o di valutazioni di un giudice terzo, non di intercettazioni che inchiodano a una qualche responsabilità, ma, appunto, di informative, cioè di atti interni all’indagine in cui gli investigatori avanzano sospetti e ipotesi che vengono diffusi prima ancora di acquisire lo status di prove.

Lo spaccato che le indagini offrono appartiene senz’altro alla sociologia del potere politico italiano, e non dice gran che di nuovo. Fornisce se mai la radiografia di una democrazia immatura, asfittica, in cui la tanto famosa circolazione delle élite non manca mai di incepparsi, in cui le relazioni informali, amicali, personali, mantengono una forte vischiosità, in cui piccole ambizioni attecchiscono tenaci e spesso finiscono col sovrastare ogni sincera idealità. Ci sono ovunque – non solo nella società politica ma pure nella società civile – i cerchi magici, i raggi magici, i gigli magici. E dalla politica si vorrebbe che se ne spazzassero via un bel po’.

Ma regolare i conti grazie alle informative delle forze di pubblica sicurezza è un’altra cosa. Alzare la voce e dire la propria dopo l’ennesima propalazione di segreti investigativi tutt’altra cosa. Così ogni discrimine salta, ogni garanzia è travolta. In un regolare processo, qualcuno avrebbe già chiesto: ma i soldi di cui Romeo parla o scrive, dove sono? Qualcuno li ha trovati? È sufficiente che qualcuno provi ad avvicinare una persona per considerarla avvicinata? Basta che qualcuno dica di vedere cosa può fare per considerare la cosa fatta? Non lo è, ovviamente. Ma quando monta la canea, queste appaiono domande ipocrite, distinzioni da Azzeccagarbugli, scrupoli causidici degni di un vecchio gesuita imbroglione. Già: siamo tutti severissimi giansenisti, con la reputazione degli altri.

Nel frastuono che così si produce è ridotta a un filo la voce di Cassandra che ammonisce: badate che non sono prove, non sono processi, non sono sentenze, sono resoconti di indagini che aspettano ancora di essere valutati dalla stessa magistratura, atti che non solo non è detto che reggano in un tribunale, ma che in un tribunale non è neppure detto che arrivino.

Su cosa allora dovremmo regolare il tono della nostra indignazione? Sulle trattorie in cui qualcuno dice, parola sua, di aver visto Tiziano Renzi infilarsi quasi di soppiatto per confabulare segretamente, o sul modo in cui cresce e si alimenta la campagna di stampa, e sugli effetti politici che produce, indipendentemente da eventuali, futuri esiti processuali? Cosa dovrebbe starci più a cuore, che nei prossimi giorni arrivino sui giornali montagne di intercettazioni che inchiodino finalmente i politici alle loro responsabilità, o che il normale corso della vita politica del Paese non sia messo un’altra volta a soqquadro dalle inchieste della magistratura, prima che vengano concluse e in qualunque modo si concludano? E qual è, in definitiva, l’abito che ci piacerebbe indossare, la psicologia con cui volentieri ci identificheremmo: quella dell’inflessibile pubblico accusatore, o quella del mite avvocato difensore?

Questa domanda rivela più di ogni altra di quali umori viva l’attuale momento storico, credo. La verità è che la democrazia dovrebbe, per sua natura, patrocinare la causa dei deboli. Siccome non esercita più questa funzione, o la assolve molto poco, i risentimenti e le invidie che si accumulano si scaricano sul sistema della giustizia. Non potendo la democrazia essere a difesa dei deboli, si fa della giustizia il luogo in cui si accusano i forti (o quelli che appaiono tali).

Ma non è uno scambio salutare, né conveniente, né liberale. Anche perché lascia in realtà i cittadini sullo sfondo, nella sadica posizione dello spettatore, mentre sulla scena (e dietro di essa) si consuma il vero regolamento di conti.

E quando per giunta sarà finito, nessuno ci garantisce che non ci sveglieremo – noi, non Lotti o Renzi – nello stesso, triste mattino di Josef K., che venne arrestato perché qualcuno, ma non si seppe mai chi, doveva averlo diffamato.

(Il Mattino, 4 marzo 2017)

Quel che resta dell’ultimo partito

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La situazione non è commendevole. E siccome non è la prima volta che il partito democratico a Napoli ne combina di grosse, si capisce che da Roma abbiano dovuto correre ai ripari e mandare un dirigente nazionale, Emanuele Fiano, per verificare la regolarità del tesseramento. Ieri è infatti esploso un nuovo caso: si va nella sede del partito coi documenti e ci si iscrive, poi c’è qualcuno che passa e paga per te. Una specie di tessera sospesa, come il caffè.

È dalle primarie del 2011 che al Pd napoletano non ne dice buona una: tra anomali e contestazioni, numeri gonfiati e candidati a loro insaputa, per il partito democratico non c’è pace. Così anche questa volta c’è il forte sospetto di infiltrazioni e irregolarità nel percorso congressuale appena avviato. Le primarie che si svolgeranno il 30 aprile sono tuttavia primarie aperte, e potranno parteciparvi sia gli iscritti che i non iscritti, quindi i casi segnalati non investono la competizione principale. Ma pesano sugli equilibri locali, che evidentemente contano ancora qualcosa, se i numeri del tesseramento, che a Napoli erano precipitati a poche migliaia, si sono improvvisamente gonfiati, e bisogna ora aggiungere uno zero per dar conto delle nuove file di aderenti al partito.

Ma togliamo pure lo zero – e sarebbe provvedimento troppo drastico, perché accade sempre che nelle annate congressuali cresca considerevolmente il numero degli iscritti – togliamolo ed avremo comunque una cifra che gli altri partiti non hanno, non raggiungono, nemmeno sfiorano. I partiti politici italiani non hanno uno statuto, non riuniscono organi collegiali, non tengono congressi. In venti e più anni, Berlusconi non ha indetto una sola assise congressuale: non ce n’era bisogno. In queste ore si leggono indiscrezioni sul rinnovamento delle file dei parlamentari che sono legate quasi soltanto alla volontà del Cavaliere. Poi, certo, Berlusconi si confronta e ascolta qualcuno dei suoi, e a volte è costretto pure a rimangiarsi le intenzioni più bellicose, ma non c’è nulla nel processo decisionale che sia in qualche modo riconducibile a regole di partito, o a una legittimazione anche solo formalmente democratica. Quanto al Movimento Cinquestelle, lì la situazione è ancora più misteriosa, perché ci sono i meetup e le votazioni online, ma nessuno capisce bene come stiano in relazione con gli ukase di Grillo, nessuno può guardare dentro la misteriosa piattaforma Rousseau che regola il traffico in Rete, nessuno, infine, sa quando può essere raggiunto da una implacabile e semi-teologica mail dello «Staff»: si sa solo che è come il Natale, quando arriva arriva.

Ora, queste cose non le ricordo per suggerire comprensione, e magari per mettere rapidamente una pietra sopra i piccoli e grandi imbrogli che inquinano la competizione nel partito democratico. C’è da augurarsi anzi che Fiano, o chi per lui, voglia davvero scoperchiare tutto quello che c’è da scoperchiare: finché non lo si farà, il Pd non ripartirà mai veramente. Ma è un fatto che questa volta qualcosa, almeno, ha funzionato: in alcuni circoli si è intervenuti in via preventiva, in altri si è chiuso il tesseramento in anticipo, e soprattutto nei casi segnalati sono stati esponenti del partito ad attivare verifiche e controlli. È chiaro che non basta, ma quel che ci vuole in più non è certo di abolire i partiti, sbaraccare tesseramento e congressi, e impoverire ulteriormente la dialettica politica. Quel che ci vuole è una legge sui partiti che dia concretezza giuridica all’indicazione contenuta nell’articolo 49 della Costituzione, secondo la quale i partiti devono concorrere «con metodo democratico» a determinare la politica nazionale.

Di metodo democratico ce n’è invece sempre meno traccia nella vita interna di quasi tutte le formazioni politiche italiane. Il Pd, pur con tutte le storture che la cronaca non manca di raccontare, qualcosa del genere, dopo tutto, ce l’ha (e, a dire il vero, ce l’ha anche la Lega): tiene le primarie, che rimangono un campo aperto e contendibile a più di un candidato, organizza il tesseramento, elegge gli organismi direttivi, ha un’articolazione interna fatta di correnti, di minoranze e di maggioranze. Poi capita che alcuni escano, che altri lamentino lo stile di conduzione del partito, che altri critichino lo statuto e altri ancora trovino insoddisfacente la semplice «conta», ma tutto sommato capita quel che capita, più o meno, in un partito politico. Comprese certe schifezze.

Se però quegli stessi che dal Pd sono usciti non chiudono del tutto la porta ma anzi rinviano ad un prossimo futuro l’occasione di ritornare insieme, vuol dire che lo spazio che il partito democratico occupa rimane decisivo per gli equilibri del Paese, centrale rispetto agli sviluppi futuri della politica italiana. E questa, beninteso, è un’aggravante a carico di quei soggetti che inquinano, per stupidità o prepotenza, il normale andamento della competizione. A Napoli come ovunque abbiano a presentarsi.

(Il Mattino, 2 marzo 2017)