L’Italia paradosso: dice sì alla riforma ma è tentata dal no

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Il sondaggio condotto da Ipsos per il Corriere della Sera sul referendum costituzionale del 4 dicembre merita qualche parola di commento. Esso infatti ci dice che il No alla riforma è in questo momento in vantaggio, e che tuttavia la partita è ancora aperta, dal momento che la distanza fra i due schieramenti è molto ridotta (52% per il No contro il 48% per il Sì) ed è ancora molto elevato il numero di coloro che non sembrano orientati a votare, o comunque non danno, allo stato, indicazioni di voto (44%). Ma poi ci dice qualcosa anche sulle motivazioni del voto. Qualcosa di sorprendente. L’istituto dei sondaggi ha provato infatti a verificare le opinioni degli elettori anche sui singoli punti del testo di riforma: se cioè l’elettore sia o no favorevole alla riduzione dei senatori, o a mettere fine al bicameralismo perfetto; se poi condivida la soppressione del CNEL o la modifica della disciplina referendaria o la cancellazione delle province dalla carta costituzionale. Su tutte queste voci, prevale il sì. Naturalmente, si può eccepire che la loro stessa formulazione favorisce una risposta in senso favorevole. E che in questo caso le intenzioni di voto sono poco significative perché pochi sanno. E però colpisce che persino alla domanda sui senatori scelti dai consigli regionali – che com’è noto non godono di particolare credito presso la pubblica opinione, visti i continui scandali raccontati dalla grande stampa  – prevalgono i sì. Infine, la domanda di chiusura taglia la testa al toro: richiesti di dire se siano o no d’accordo con i contenuti della riforma nel loro complesso, gli italiani dicono in maggioranza di sì, di essere molto o abbastanza d’accordo (42%), mentre ad essere poco o per nulla d’accordo è solo il 35%.

Traduciamo: gli italiani approvano i contenuti della riforma, ma esprimono disapprovazione per motivi diversi da quelli di merito, da ciò che la riforma prevede e da come la Costituzione cambia. Vale a dire: dicono di no per motivi puramente politici.

Quel che così emerge è però qualcosa di più radicato e di più profondo di ciò che possiamo constatare anche con i nostri personali sondaggi, chiedendo cioè in giro come siano orientate le persone che conosciamo, che incontriamo al bar o sul luogo di lavoro. Perché è facile verificare che le intenzioni di voto oggi espresse sono molto più legate alla partita politica che si gioca attorno al referendum, che non al cambiamento costituzionale. Si dirà che il premier ha sbagliato a personalizzare il confronto, se non altro perché ha consentito alle opposizioni (diversissime fra loro) di fare fronte comune. Ma al di là dell’errore di comunicazione di Renzi, e della possibilità di correggerlo nel corso dei prossimi due mesi di campagna elettorale, c’è un tratto più fondamentale che in quel sondaggio trova espressione. C’è un’antica faziosità e partigianeria tutta italiana, che gli storici faranno forse risalire ai guelfi e ai ghibellini, ma che sicuramente arriva fino ai nostri giorni. Fino almeno all’antiberlusconismo, che è stato l’ampio cappello sotto il quale a lungo si è accomodata l’opposizione di sinistra al Cavaliere. Ma arriva anche alla bandiera della libertà dal comunismo, che è stata issata dallo stesso Berlusconi ben dopo la caduta del muro di Berlino. E funzionava.

Nell’uno e nell’altro caso, si è trattato evidentemente di vessilli ideologici, di motivazioni di carattere simbolico, in grado di coagulare immediatamente una maggioranza che per le vie faticose del consenso informato – la dico con una metafora medica, visto che il Paese sembra ancora affetto da qualche virus patologico – non era altrettanto facile ottenere.

Vale la pena scomodare la storia, per rimarcare una continuità di costumi politici che attraversa da gran tempo il nostro Paese, ma vale la pena anche rimarcare le discontinuità. È vero infatti che in Italia le due Chiese – quella democristiana e quella comunista  – hanno formato i rispettivi popoli forse più dell’identità nazionale, per cui l’appartenenza a un campo oppure all’altro determinava i comportamenti politici ed elettorali – ma anche, a lungo le alleanze sociali – indipendentemente dalle scelte di merito. Era tutta politica, a danno però delle politiche, cioè delle linee concrete di azione e di scelta. Ma è vero pure che, per un largo tratto, quelle chiese hanno svolto almeno un’azione di carattere pedagogico, formato comunità, fornito una coscienza, elaborato elementi di un lessico politico e culturale che ha portato dentro la vicenda del Paese masse ingenti di uomini e donne. Oggi invece rischiamo di avere, di quel passato ideologico, solo il riflesso condizionato, senza più alcuna sostanza sottostante. Continuiamo a schierarci di qua o di là a prescindere, senza più nessun’altra ragione per difendere la scelta. Non nel merito, ma neppure nella collocazione internazionale, o nella visione del mondo. Che visione del mondo si esprime, infatti, nel far cadere Renzi o nel tenerlo su? Nessuna, eppure la partita rischia davvero di ridursi a questo. Con la stessa semplificazione di un tempo, ma con molta meno ragionevolezza di allora. E con davanti una Costituzione da cambiare o da lasciare così com’è.

Forse il Paese avrebbe bisogno di liberarsi da certe tossine, o forse sarebbe sufficiente che non ne assumesse di nuove. Perché mentre a chiacchiere celebriamo la fine delle ideologie, le uniche forze politiche nuove, che non abbiano radici nella storia repubblicana – cioè la Lega dapprima, i Cinquestelle poi – si presentano come movimenti fortemente ideologizzati, in grado di trangugiare qualunque contraddizione in nome di obiettivi puramente simbolici e significativamente distanti da qualunque realtà (la secessione padana, la democrazia diretta grillina).

Così stando le cose, il compito che ha dinanzi il fronte favorevole alla riforma è veramente un compito storico, perché sarà enormemente complicato portare a coincidenza il sì al merito della riforme con l’espressione di voto finale. Ed è dubbio, a questo punto, che ci si riuscirà solo con il fioretto degli argomenti in punta di penna, o con gli inviti a ragionare con pacatezza sugli articoli del nuovo testo costituzionale.

(Il Mattino, 4 ottobre 2016)

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